VITO MORETTI.
Dal Catalogo del Premio Nazionale di Lettere, Arte e Scienze - Premio di Poesia G. Porto Ed. 2017.
06 febbraio, 2022 - Cultura.
San Vito ha avuto, in passato, una sua bella consuetudine di canti e di attività musicali e una non meno prestigiosa vicenda di gruppi melodici che la memoria dei più anziani e le carte di taluni archivi di famiglia hanno conservato alla storia del folklore frentano e, più in generale, a quella della cultura abruzzese. E d’altronde, di “cultura” si tratta, sia linguistica che antropologica, nella quale la comunità (la comunità tanto degli uomini quanto delle donne) si è riconosciuta e si è espressa nel corso degli anni, elaborando via via la propria identità e riproponendo ogni volta a se stessa l’orizzonte dei propri valori, le attese quotidiane, i drammi della vita e dell’essere e i modi di gioire e di soffrire, di asserire e di negare, di credere e di smentire, in un vasto repertorio di sentimenti laici e religiosi che, a partire dalla metà dell’Ottocento, si insediò dapprima con le vesti anonime del canto popolare (per gli studi “sul campo” di Gennaro Finamore e di Antonio De Nino), poi con i tratti della creazione poetica in dialetto e dei registri musicali dei canti d’autore.
San Vito si inserì assai presto in questo prodigioso circuito di iniziative canore, segno della presenza nel suo perimetro di un vivace interesse, ed anche, verosimilmente, per la contiguità con Lanciano e Ortona, dove vennero organizzate le prime, importanti manifestazioni musicali.
Nella cittadina frentana – e più esattamente nella contrada di Santa Liberata – la prima domenica di maggio del 1896 il poeta Luigi Renzetti aveva promosso, in omaggio ad una giovane maestrina di cui era innamorato, un raduno di poeti e un’audizione di canti dialettali inediti, scritti per l’occasione ed eseguiti dal coro locale con l’accompagnamento della banda di Lanciano. La «Festa campestre» di Santa Liberata si protrasse per alcune edizioni e si impose – per il successo che registrò – a “modello” delle altre iniziative canore, sorte a cavallo di secolo e nei primi anni del Novecento, come quella promossa a Francavilla a Mare nel 1911 dal Maestro Francesco Tancredi. E ancora a Francavilla, dopo la parentesi della guerra europea, operò con vasta eco anche il gruppo corale che Arturo De Cecco aveva costituito nel 1919 per la diffusione dei canti abruzzesi, sia popolari che d’autore, con testi della tradizione contadina ed altri nuovi, soprattutto di Antonio Di Iorio.
Ma l’impulso più consistente venne forse dal primo concorso di canti indetto a Lanciano nell’aprile del 1922 (presieduto da Camillo De Nardis, il quale scartò clamorosamente – oltre che Lucenacappèlle di Giulio Sigismondi e Giuseppe Gargarella – la canzone poi divenuta la più celebre d’Abruzzo, «Vola, vola, vola», di Luigi Dommarco e Guido Albanese) e dalla «Maggiolata» di Ortona, organizzata in forma di concorso il 22 maggio 1922 (e vinta proprio da «Vola, vola vola», su «Mare nostre» di De Titta-Di Iorio, composta, pare, come attesta l’autorità di Antonio Piovano (Storia del canto popolare abruzzese, Pescara, Editrice Emblema, 1968, p. 19), sul trenino della «Sangritana», in prossimità della costa di San Vito). Ad Ortona, del resto, fin dalle iniziative del ’20 (che recavano la dicitura di «Piedigrotta abruzzese» in omaggio alle parentele culturali con Napoli), era presente il sanvitese Vito Olivieri, autore fecondo di canti come «Vola, canzone», «Famme na fatture», «Ci po’ vinì…», «Tante salute», eccetera, su versi di poeti coetanei di area per lo più frentana.
Nel medesimo periodo, mentre le feste canore trovavano fioritura anche a Castellamare (odierna Pescara), ad Atri, a Guardiagrele e in altre località dell’entroterra, i nomi di una pattuglia di giovani musicisti (Camillo Renzetti, Pier Andrea Brasile, Pierino Liberati, Alvise D’Anniballe, Cesiano De Archangelis, Fanuccio Fiorentino) si imposero accanto a quelli di maestri già riconosciuti; ed erano nomi, peraltro, di coloro che avrebbero svolto un ruolo da protagonista alla I e alla II edizione della «Festa del mare» (organizzate a San Vito nel 1923 e nel 1926) e che avrebbero contribuito non poco a sottrarre la canzone abruzzese ai clichés e ai moduli della canzone partenopea, consolidando i tratti più propri ed originali dei nostri testi. Infatti, a differenza della canzone napoletana, monodica e disegnata sul genere della romanza d’opera o da camera, alla maniera percorsa – ad esempio – da Francesco Paolo Tosti (che, comunque, aveva ben grande personalità e sconfinato estro per un’operazione del genere), la canzone abruzzese venne da subito concepita come composizione “corale”, che scaturiva – al pari dei brani anonimi – dalla vita concreta dei suoi interpreti e dalla realtà di un racconto destinato non solo all’ascolto, quanto, e soprattutto, alla partecipazione, in una cornice che non era generalmente il salotto di casa ma i luoghi della stessa natura (il mare, la campagna, l’habitat della fatica quotidiana e dei sentimenti più spontanei ed autentici).
In tal modo, le due edizioni della «Festa del mare» non trascorsero inutilmente e anzi contribuirono a dar corpo a quella “eredità canora” della quale si avvidero i più nel corso degli anni Trenta, legittimando il ricorso alle feste popolari e alle gare di canzoni anche in piccole realtà abitative, come la vicina Poggiofiorito, dove Tommaso Coccione (Cfr. Tommaso Coccione, in Vincenzo Coccione, Paese bbelle mé. Canti folcloristici abruzzesi e canzoni per bambini, con presentazione di Francesco Paolo Santacroce e Nicola Fiorentino, Teramo, Edigrafital, 2001, pp. 11-13), di ritorno dall’America con la sua fisarmonica, ebbe per primo l’idea di sostituire alla banda e agli strumenti a fiato la fisarmonica, appunto, per l’accompagnamento del coro. Una soluzione, questa, che negli stessi anni Trenta, a San Vito, fu condivisa dagli organizzatori del nuovo incontro musicale intitolato «Ccuscì cante lu core nostre»: un evento tenuto il 15 giugno del 1937 e concepito, verosimilmente, con cadenza annuale, sul modello delle precedenti «Feste del mare», ma che – per varie ragioni e per il sopraggiungere sventurato della guerra, che troncò tanti entusiasmi – non poté ripetersi che nel ’46 e nel ’47, con gli auspici di un benemerito “Comitato artistico” formato dalle intelligenze dapprima di Oliviero Di Clemente, di Pietro Bruno D’Intino, di Giulio Sigismondi e di Rocco Iarlori, poi anche – nel ’47 – di Giovanni Javicoli, di Adelfio Renzetti, di Mario Altobelli, di Andreamatteo Ireneo e di Nicola Frattura. Nell’occasione, sotto la guida del maestro concertatore Deo (Amedeo) Bozzelli, San Vito dispose di un apprezzatissimo Coro, che accompagnò i brani di coppie divenute prestigiose, come «Stu cante è pe te», «Scappe ’nche me», «Amore perdute», «Damme nu fiore», «Suspire d’amore», «Serenate d’amore», «Lisette», «Se Ddi’ vò…», «La canzone de lu marinare», «Tu mi vuo’?», di Di Clemente-Bozzelli, o come «La stelle», «Li cillucce di Sam Petre», «A la Messe», di Sigismondi-Bellini.
Nell’edizione del ’47, inoltre, si distinsero brani destinati a simboleggiare più di altri l’identità canora della comunità sanvitese, come «Sante Vite cante» – con versi di Pietro Bruno D’Intino e musica di Benvenuto Nicola –, la stessa «Canzone de lu marinare» – di Di Clemente-Bozzelli –, «L’arta cchiù prelibate» – con versi e musica del Sigismondi –, «A la lune» e «Tutte a tempe sé» – di Rocco Verì e del maestro Bozzelli – e «Muntagna bbelle» – di Alberto Dragani e musica di Carlo Scoppetta – (Su questi fatti e su molti di questi uomini, cfr. Maria Di Clemente, La scena degli anni. Aspetti di vita paesana, prefazione di Vito Moretti, Lanciano, Edizioni «Rivista Abruzzese», 2003).
Accanto alla produzione tradizionale si inserirono, dunque, e trovarono vita, alcune canzoni nuove che assicurarono uno sviluppo del patrimonio folkloristico e che, radicandosi meglio allo specifico del territorio, ne interpretarono con maggiore efficacia l’indole, la sensibilità e le proiezioni psicologiche ed esistenziali.
Su questa linea agirono la successiva edizione di «Ccuscì cante lu core nostre», dell’estate 1977 (in cui trovarono vasta risonanza «Lu “Colle”», di D’Intino e Rocco Iarlori, e «Lu pescatore», di Sigismondi-Albanese), e l’omonima manifestazione canora (dopo il riuscitissimo spettacolo «Le canzoni raccontano San Vito», di un paio di anni prima) organizzata nel luglio 2004 da Maria Di Clemente e dall’Associazione culturale «Vito Olivieri» e condotta da Antonio Iarlori, con il sostegno del maestro Maria Stefania Puscio e di un solerte “Comitato”, composto – oltre che da Tommaso, Vito e Angelo Olivieri – da Mario Cipriani, Tommaso Di Leandro, Antonio Ciccocioppo, Tommaso D’Alessandro e Delio Giuliante.
La ventura musicale e corale aveva espresso, in queste programmazioni, un momento alto di affettuosa dedizione alle voci e ai ricordi della propria terra e della piccola patria d’origine, anche sotto l’incalzare di altri generi musicali e di un costume irrimediabilmente esposto ai più contraddittori stimoli che la modernità andava soffiando dai bordi di tutti i campanili; e, in virtù forse di questo stesso confronto, la ventura musicale ha potuto anche registrare, nel tempo, il definitivo passaggio dal canto articolato su due o tre soli accordi, a canti dalle modulazioni più complesse e dai cromatismi e marcature decisamente “professionali”, con la stabilizzazione della canzone, tuttavia, nella forma canonica di «strofa più ritornello», tenuti insieme sovente da un “ponte” o “coda”.
Di recente questo patrimonio di esperienze è stato intelligentemente recuperato da alcuni appassionati dell’arte e del folklore, che hanno saputo elargire il dono a San Vito di altri entusiasmi, confortati dal progetto di lasciar rivivere – nelle estati sanvitesi – le canzoni della «Festa del mare» e certi peraltro che il miglior modo di essere se stessi nel presente sia appunto quello di tener desto il ricordo del passato e di rammentare con animo giusto la storia delle sue trascorse generazioni.
Dal Catalogo del Premio Nazionale di Lettere, Arte e Scienze - Premio di Poesia G. Porto Ed. 2017.