Scrittura, letteratura e grafia dialettale

DANIELA D'ALIMONTE.

Pianella, 09 marzo, 2022 - Cultura -

Secondo una convinzione piuttosto diffusa, tra gli aspetti che concorrono alla definizione del dialetto rispetto alla lingua, vi è il fatto che il vernacolo risulti varietà prevalentemente orale, con una tradizione scritta e letteraria limitata. In realtà è semplicistico utilizzare un criterio di questo genere in quanto i dialetti italiani hanno offerto ed offrono ancora oggi una produzione valida e ben rappresentata di scritti, in particolare dove vi sono varietà dialettali di prestigio ma anche altrove come, ad esempio, nella nostra stessa regione. Possono essere diverse le motivazioni per scrivere delle opere in dialetto. Una di queste è ritenere che esso abbia una maggiore espressività, una maggiore forza stilistica rispetto all'italiano, specialmente se è riferito ad aspetti della cultura locale, ad esempio alla vita tradizionale, al mondo dei sentimenti e degli affetti quotidiani. Vi è poi la volontà di esprimersi nella lingua materna ancor di più in questi tempi nei quali la forte concorrenza con l'italiano mette in pericolo la vitalità del dialetto; si tratta cioè di dimostrare che se si può scrivere in italiano lo si può fare anche in dialetto, che anche con questo codice si sono prodotte e si producono cose letterarie.

Si deve a Benedetto Croce-in un saggio del 1926 intitolato: “La letteratura dialettale riflessa, la sua origine nel Seicento e il suo ufficio storico”- la definizione di una letteratura dialettale che, nata verso  il XVII  secolo,   opta   per   la   scelta   del   dialetto    potendo

disporre anche di un altro strumento comunicativo dotato di maggiore prestigio e di una più ampia diffusione sul territorio come la lingua italiana. La nascita di questa letteratura “riflessa”, che non bisogna per forza considerare minore rispetto a quella in lingua, è fissata dal Croce in relazione alla definitiva affermazione del toscano come lingua letteraria nazionale. La datazione oggi è però anticipata rispetto a quella da lui proposta perché, anche in precedenza, fin dal XIV secolo si trovano scritti in vernacolo che rispondono ad una scelta culturale e all’intento di contrapporre il dialetto ad un'altra tradizione linguistica. Al di là del valore letterario, gli scritti in dialetto propongono comunque un quesito interessante: quanto è fedele l’utilizzo del dialetto? Ci si chiede, cioè se questo codice, una volta adoperato, rifletta l'esperienza quotidiana o si adegui a forme dialettali più o meno codificate e stilizzate. Bisogna inoltre domandarsi se il suo uso ricerchi forme che nel parlato sono ormai arcaiche, se sia infine rielaborazione colta o personale o ancora sperimentalismo linguistico.

È fuor di dubbio che la scelta di usare il dialetto abbia ragioni diverse ma forse la principale è che esso, in alcuni casi, è ritenuto, dal poeta che lo possiede come lingua di primo apprendimento, più incisivo specie per esprimere un sentimento e uno stato d'animo e sia portatore di allusioni, di riferimenti, di sottintesi che si perdono quando l'intenzione espressiva si traduce nella lingua. Il dialetto, cioè, diventa lo strumento che permette di arrivare alle corde più profonde della persona. Poi può essere anche il risultato di una scelta fortemente ideologica. Qualche volta infatti la decisione di scrivere in dialetto si configura come opposizione polemica nei confronti della lingua considerata dominante e tuttavia inadeguata ad esprimere la vitalità del quotidiano. Può inoltre essere presente il senso del dialetto come lingua del passato, dunque lingua perduta che vuole essere rivendicata. Si pensi alle “parolas antigas” del sardo Mario Pinna o al “vecio parlar” del veneto Andrea Zanzotto.

La qualità letteraria della scrittura poetica in dialetto è stata in qualche caso messa in dubbio dai critici; è stata considerata dilettantesca perché troppo di frequente legata a stilemi ripetitivi. Anche in Abruzzo spesso la poesia dialettale si è legata e si lega a determinati temi come un passato antico e felice, il focolare, le figure dei familiari che non ci sono più, le antiche usanze che sono sì confacenti all’utilizzo del dialetto ma che rischiano di creare una scontata ripetitività e di imbrigliare questa lingua entro certi stereotipi. Tuttavia, specialmente negli ultimi anni, è stata osservata anche una tendenza rinnovatrice come ha sottolineato in qualche passo il linguista Manlio Cortelazzo affermando che la migliore poesia dialettale contemporanea ha abbandonato finalmente l'uso bozzettistico e crepuscolare a favore di una ricerca sperimentale di tutte le sue possibilità. Soprattutto dal secondo dopoguerra in poi la scrittura letteraria ha interessato anche i dialetti più isolati e le varianti più arcaiche come manifesto di una identità linguistica propria del poeta e del suo popolo che vuole serbare dal pericolo dell’oblio.

Ecco alcuni versi assai noti del siciliano Ignazio Buttitta:

Un populu /diventa poviru e servu,/quannu ci arrobbanu a lingua/adduttata di padri:/è persu pi sempri.

 Si arriva fino alla concezione del dialetto quale linguaggio individuale, interiore, forse poco comunicativo ma senz’altro    garante della massima autenticità individuale. La vitalità della

letteratura dialettale in rapporto alla diminuzione dell'uso del dialetto e specialmente la scelta di adoperare varietà marcate, autentiche, non “ripulite” dalle particolarità fonetiche proprie, in taluni scrittori dialettali sembra portare verso una funzione sempre più ermetica, aulica, esclusiva del dialetto. In Abruzzo si possono esaminare in questa direzione le poesie di Alessandro Dommarco in cui viene impiegato il dialetto ortonese originale inteso come lingua riservata e ricercata, come lingua assoluta della poesia. Se  ne riporta qui un esempio tratto da Da mó ve diche addije (1980).

Gna 'rvòte lu vènde

Vuò sapé' che tte diche? Quand'è ll'ùteme/'sta vite còcche passe sòpr'a mmé/'ccuscì gna hè, 'na vòte 'nnammurète/'n'âtre 'ngifrète: gna 'rvòte lu vènde/che mmó stè ècche accòme 'na carézze

mó ze 'gnanisce e ffè 'nu scenuflègge./Fére lu vènde quande e accòma vó'/de llà de cqua, e a lu judìzije nòstre/nen dè' nisciuna réhule, 'stu vènde/che ggna pòrte la vite e ggna le stucche/nen ze scumbònne e ppe' la ternetà/cundìnue a ccòrre a ccòrre e le cummane/sòle 'na légge che n'-ze sè che hè/e ne' hè malamènde e mmanghe bbóne/ma a la fine lu cónde j'ardè siémbre.

Per quanto riguarda il processo dello scrivere in dialetto occorre dire che vi sono dei modelli ma non una norma linguistica di riferimento né una grafia unitaria e a volte il valore fonetico e i segni grafici utilizzati possono non essere chiari e univoci; per qualche varietà tuttavia sono state fissate delle grafie alle quali si può ricorrere ma questo non è avvenuto per l’abruzzese. La mancanza di grafie dialettali unitarie e possibilmente adatte a rendere la fonetica dei dialetti è dovuta in Italia al fatto che i dialetti, numerosi, non sono stati interessati da processi di normalizzazione grafica; per alcuni, soprattutto per le varietà di prestigio (veneziano, napoletano, romano ecc.), sono state avanzate delle proposte ma queste faticano comunque a diventare il modello di riferimento per i tanti poeti che scrivono in dialetto.

Diverse e non sempre ben definite sono le strade che si possono intraprendere. Tra queste c’è la possibilità di fare ricorso a trascrizioni con segni diacritici vale a dire con dei segni speciali che permettono di abbinare e far corrispondere un determinato suono ad un segno grafico nell’obiettivo di una trascrizione fonetica, ovvero una trascrizione che riproduca, nella maniera più fedele possibile, i suoni del dialetto adoperato. Si tratta di rendere, con particolari lettere e segni, i suoni dei vari dialetti: per esempio si può utilizzare un accento come quello grave per segnalare una vocale aperta e quello acuto per una vocale chiusa ma le soluzioni grafiche possono essere diverse. Una volta fatta la scelta di resa grafica essa si deve poi rispettare perché ad ogni segno grafico deve corrispondere sempre, nello stesso scritto, un unico suono e viceversa altrimenti si genera confusione. Tuttavia la scrittura dialettale oggi è quanto mai variegata per il fatto che nel tempo si sono proposte soluzioni grafiche diverse per rendere suoni particolari di ciascun dialetto. L'utilizzo dei segni diacritici di cui si è accennato sopra, se è indispensabile per gli studi specifici e di settore sui dialetti, non rappresenta però una soluzione praticabile per una scrittura rivolta ad un pubblico di non specialisti che a stento leggerebbe tali segni e la loro lettura comunque appesantirebbe inevitabilmente il testo poetico. A fronte di una grafia fonetica troppo complessa è utile una soluzione intermedia. Nelle trascrizioni di parole dialettali in cui non sia fondamentale l'interesse linguistico è sufficiente, così come sottolinea anche in questo caso il linguista Manlio Cortelazzo,

rendere il dettato impiegando le lettere e i segni dell'alfabeto italiano, integrato se necessario, da lettere, segni e accorgimenti che siano di facile comprensione e di agevole accessione tipografica.

DAL CATALOGO DEL PREMIO NAZIONALE LETTERE, ARTE E SCIENZE, Selezione di Poesia Giuseppe Porto , XXI , 22 dicembre 2018.

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