12 marzo, 2022 - Cultura.
Costantino FELICE.
Dal Catalogo del Premio di Poesia G. Porto " Città di Pianella" Ed. 2011.
In Abruzzo si è avuto una sovrapposizione della letteratura e dell’antropologia sull’indagine storica. Questo ha portato ad una serie di stereotipi e luoghi comuni che impediscono la conoscenza della realtà regionale. I problemi che le classi dirigenti oggi hanno davanti sono di ordine culturale ed etico prima che politico.
Il tipo di sviluppo avutosi in Abruzzo - nei passati decenni certamente il più accelerato e solido tra le regioni meridionali - presenta una tale varietà di specificazioni e sfaccettature da non consentire un facile incasellamento entro la consueta modellistica con cui vengono descritti i processi di modernizzazione nelle regioni italiane. Lo studio dell’Abruzzo può anzi costituire un’insolita opportunità - una sorta di laboratorio, si potrebbe azzardare - per sottoporre a verifica schemi concettuali, categorie storiografiche, paradigmi interpretativi che, specie in riferimento al Mezzogiorno (ma anche all’Italia nel suo insieme), sembrano darsi ormai per definitivamente acquisiti e consolidati.
Una questione si pone preliminarmente: nell’immediato dopoguerra una serie di indicatori economico-sociali, non tanto per effetto delle pur ingenti distruzioni belliche quanto soprattutto per ragioni propriamente strutturali, collocavano l’Abruzzo nel «profondo Sud», tra le regioni maggiormente in ritardo di crescita (Calabria, Basilicata, Sadegna); da qualche tempo invece esso è considerato la regione del Sud d’Italia meno meridionale: una regione che per diversi motivi, pur restando sempre Mezzogiorno, potrebbe essere tranquillamente inserita tra le aree maggiormente progredite e dinamiche del Centro-Nord. Da più arretrata, dunque, a più avanzata (volendo ancora usare categorie di questo genere). Se risponde a verità - come tutti ormai sembrano concordare - questo giudizio postula alcuni interrogativi di fondo: quali specificità hanno caratterizzato lo sviluppo abruzzese per conseguire un tale risultato? Cosa ha differenziato la «modernizzazione» di questa regione rispetto alle altre? Quali ne sono state le precondizioni e le forze trainanti?
Risposte esaurienti a questi interrogativi non possono certo venire (del resto nessuno lo sostiene) dagli schemi di lettura elaborati in riferimento ad altre zone del paese. Per l’Abruzzo non vale, ad esempio, il modello della cosiddetta «terza Italia», né il modello Nec (Nord-Est-Centro) o quello della «via adriatica allo sviluppo»: parametri interpretativi, come si sa, che sonotutti di derivazione prevalentemente sociologica, ma che poi hanno ottenuto ampio credito anche nell’indagine e nel dibattito storiografico.
Del resto i sostenitori stessi di questi impianti esplicativi, particolarmente coloro che per primi li hanno applicati a determinate aree del paese, si guardano bene dall’estendere le loro ricognizioni alla realtà abruzzese; solo con riferimento al Teramano (specificamente la Val Vibrata) si è ipotizzato, ma molto timidamente, un prolungamento della «via adratica» da nord verso sud.
All’Abruzzo, d’altro canto, non sono del tutto applicabili neanche i modelli interpretativi adoperati per spiegare i persistenti ritardi del Sud d’Italia: non si può parlare di economia assistita o dipendente, e neppure di «sviluppo senza autonomia», come invece da più parti si sostiene con riferimento alla complessiva, seppur variegata, realtà meridionale. E’ anche discutibile, del resto, che l’Abruzzo, una volta conseguiti determinati risultati, non venga più considerato parte del Mezzogiorno: dietro questo tipo di concezione si nasconde, in realtà, una sorta di pregiudizio meridionalistico, vale a dire una persistente concezione dualistica dell’Italia per cui il Sud, con le sue congenite arretratezze economiche e culturali, sarebbe altro dal Nord, una «anomalia» rispetto ad un paese per il resto normale. Pur di non contraddire tale «paradigma» si giunge al paradosso di espellere questa regione (e da qualche tempo anche il Molise) dal Mezzogiorno d’Italia.
Questi tipi di lettura si ritrovano, in forme più o meno esplicite, anche nella maggior parte degli studi specificamente dedicati all’Abruzzo. Le interpretazioni fornite sul particolare sviluppo abruzzese possono infatti riassumersi intorno a tre filoni principali. C’è un filone, forse il più noto e diffuso, che dà il primato alla geografia, in particolare alla collocazione geografica della regione. Categorie come quelle di «cerniera», «ponte», «Nord del Sud», cui solitamente si fa ricorso quando si parla dell’Abruzzo, sottendono visioni di questo genere: sarebbero stati, in altri termini, preminenti fattori di natura geografica – orografia e morfologia del territorio, natura e disposizione dei suoli, ma soprattutto la collocazione al centro della penisola – a determinare l’eccezionale perfomance della regione. È un’interpretazione ovviamente portata avanti, con riferimento all’Abruzzo, soprattutto dai geografi medesimi, ma può vantare, sul paino generale, autorevoli ascendenze anche in campo propriamente storico.
C’è un altro filone di studi che invece conferisce il primato alla politica, fatta assurgere a «variabile indipendente» nel complesso delle dinamiche che si sono attivate nello sviluppo abruzzese. Sarebbe stato cioè il ceto politico, ovviamente soprattutto quello di maggioranza governativa, grazie alla sua particolare abilità nel muoversi tra «centro» e «periferia», trasformando persino l’accentuato particolarismo delle popolazioni in una risorsa per il progresso (anzi nella principale risorsa), a fare di questa regione ciò che essa può oggi vantare di essere.
Ed infine c’è un filone di studi – nella cui produzione si è distinto particolarmente il Cresa – che pone al centro dello sviluppo abruzzese l’impresa o, per meglio dire, le scelte di natura imprenditoriale che questa è andata compiendo nel corso degli anni. E’ il primato dell’economia, per cui tutto si risolve (e si spiega) in termini di misurazioni statistiche (con prevalenza ovviamente dei dati macroeconomici), oppure dei differenti ruoli svolti, a seconda dei casi, dalla grande, piccola o media industria. Demiurgo del divenire, neutro ed impersonale, diventa l’azienda, con le sue ferree logiche di produttività ed efficienza. A fare la fortuna dell’Abruzzo sarebbero state, secondo questa visione, soprattutto le convenienze di localizzazione e com- petitività offerte dalla regione.
Non c’è dubbio che ciascuna di queste interpretazioni qualche elemento di verità lo contenga. Ponendosi da ottiche diverse, è ovvio che esse finiscano col cogliere aspetti più o meno significativi effettivamente riscontrabili - anche se spesso in verità si resta nella mera constatazione - nei processi di crescita che vengono analizzati. Si tratta però di vedere se le preminenze di volta in volta poste in rilievo - geografia, politica o economia - possono essere fatte assurgere a peculiarità del «modello» abruzzese. Di quante altre regioni - si pensi alle Marche o alla Puglia (per stare a quelle di confine a nord e a sud) - non si possono dire, in fin dei conti, le stesse cose? E’ probabile, viceversa, che i tratti specifici della straordinaria metamorfosi abruzzese quelli che davvero ne hanno fatto un «caso» peculiare debbano essere cercati soprattutto altrove, o comunque anche altrove.
Il processo di industrializzazione realizzatosi in Abruzzo, a differenza di quello classico delle «cattedrali nel deserto» avutosi nel resto del Mezzo- giorno, rappresenta un caso «virtuoso» di sviluppo regionale. E questo lo si deve non certo alle scelte oculate delle élites politiche, bensì alla fortissima mobilitazione della società civile, come ha dimostrato la vicenda della valle del Sangro, che ha portato alla sconfitta del «modello» petrolchimico.
Ritroviamo un consistente protagonismo di massa (chiamiamolo così) alla base di ogni fondamentale opzione del “modello” abruzzese. La modernizza- zione della agricoltura sarebbe stata impensabile, per esempio, senza il Fuci- no, scenario «epico» delle lotte contadine e della riforma agraria.
La terra che Silone aveva innalzato a simbolo letterario del secolare immobilismo meridionale (soprattutto in Fontamara) nel secondo dopoguerra si scuote in un sussulto di popolo - assai più che altre volte nel passato - che la trasforma in un laboratorio di dinamismo sociale e di mutamenti economici tra i più ricchi e significativi dell’Italia repubblicana. Già per il suo passato il Fucino evocava un’infinità di significati: quasi non c’è versante dell’attività
umana - dall’economia alla politica, dalla letteratura alla tecnica - che non ne fosse stato in qualche modo coinvolto a livelli più o meno alti. È difficile trovare un luogo – nel Mezzogiorno in particolare, ma anche nell’Italia intera – altrettanto carico di pregnanza storica. L’anno di svolta è però il 1950, allorquando monta un imponente movimento popolare che porta all’esproprio del latifondo e pone le basi per la riforma agraria.
Ma si pensi, ancora, al peso che hanno avuto i movimenti ambientali- sti nel fare dell’Abruzzo la «regione dei parchi», all’avanguardia non solo in Italia ma nella stessa Unione europea.
Nelle letture che si danno del «caso» abruzzese non si dovrebbe dimenticare, insomma, che nei momenti di svolta, quando si trattava di decidere sulle strade da percorrere e sui soggetti che sarebbero dovuti entrare in gioco, hanno avuto un’influenza anche la sensibilità e l’intraprendenza delle comunità locali. E questa azione è di solito risultata tanto più incisiva quanto maggiormente è stata sollecitata e diretta dal basso.