ANTONIO MEZZANOTTE.
Emiliano Giancristofaro (grande, mitico, impareggiabile e indimenticabile Prof.!) una volta mi disse che per comprendere il fenomeno folclorico è necessario accostarsi ad esso con umiltà e rispetto, in punta di piedi, e solo così, forse, se ne coglie il significato che sta oltre la manifestazione esteriore, ossia quella che appare quando non si è coinvolti in prima persona. L'insegnamento del Prof. è davvero utile per la vicenda che brevemente narro in questo post domenicale.
Sono stato un paio di volte a Fara Filiorum Petri (CH) per la festa di Sant'Antonio Abate, ma non avevo mai vissuto la preparazione della farchia. Quest'anno, invece, ho approfittato del cortese invito di amici. Ebbene, non si comprende la festa della vigilia (16 gennaio), se non si vive almeno un briciolo delle fasi che la precedono.
Come mi ha precisato con laconica semplicità zi Ndonie, il decano dei farchiaroli di una delle contrade di Fara, per realizzare la farchia occorrono tre ingredienti: passione, arte e devozione.
La passione viene dall'aver vissuto fin da piccolo nel rito del Santo e con tutto quel che lo circonda: il senso della comunità paesana, l'attaccamento alla contrada, lo stare insieme al vicinato, il perpetuare una tradizione appresa dai propri antenati e il dovere di trasmetterla ai figli e nipoti.
Qui subentra il secondo profilo: il saper fare, l'arte appunto. È lo stesso zi Ndonie a sottolinearlo con orgoglio e compiacimento: "nemmeno un ingegnere, con rispetto parlando, saprebbe fare meglio!". La precisione millimetrica nel posizionamento delle canne, i rami di salice rosso passati sul fuoco e torti "alla montagna e alla marina", le misure canoniche trasmesse di padre in figlio, le tecniche di realizzo, gli strumenti rudimentali utilizzati fanno sì che ogni farchia sia una vera opera d'arte, frutto dell'ingegno umano tramandato di generazione in generazione.
Infine, il motivo conduttore, quello che tutto muove: la devozione al Santo eremita in ricordo del gran miracolo della cacciata dei francesi nel 1799. È per lui e in suo nome che ci si incontra, si accende il fuoco, si vive con intensa partecipazione i giorni precedenti alla festa e si mantengono salde l'appartenenza alla comunità, la propria individualità e la fede interiore.
Allora, vi è un solo modo per concludere questo breve post, riprendendo un verso del canto che in questi giorni s'ode per tutta Fara: evviva sempre Ndonie Abbate!