MARCO TABELLIONE.
La ripubblicazione ad opera di Angelo Ciccullo, poeta romano, di una vecchia raccolta di poesie, intitolata L’eclisse, si presenta come una sorpresa gradita, soprattutto perché ci si rende conto della cifra poetica della prima maniera di Ciccullo, nonostante l’evidente ossequio alla matrice religiosa, che però giunge a nutrire spiritualmente dei versi di grande spessore civile e umano. I versi, di forte attrattiva estetica, conferita dalla loro brevità e intensità emotiva, descrivono un percorso di fede, fede in Dio ovviamente, ma anche fede nell’uomo, nei valori di una vita che stenta sempre di più a finalizzarsi alla vita; vita che finisce per diventare strumento di altro, soprattutto di un materialismo ed un consumismo nei quali stiamo gettando interamente la nostra civiltà.
Pur cercando di resistere alla tentazione di una morale teorica, il libro traccia una descrizione di valori e visioni positive, che si pongono innanzitutto come confronto col lettore, come comunione con il suo animo, e poi descrivono indirettamente una proposta di rieducazione della nostra civiltà. Dai frammenti dei suoi pensieri, delle sue esperienze sensoriali e sentimentali, il poeta traccia un percorso esistenziale in un certo senso iniziatico, visto che le poesie furono scritte nella prima fase artistica di Ciccullo e solo più tardi pubblicate. Il senso riposto della raccolta sta forse nella terzina finale di una delle ultime poesie, quando il poeta fa riferimento ad un mini-racconto di isole felici e di naufragi. Il naufragio, nel senso anche del filosofo Karl Jaspers, cioè la negatività dell’esistere determinata dalla consunzione temporale che ci sovrasta, è visto però come condizione della nostra reale felicità, della nostra unica possibilità di felicità, che è nel naufragio; “naufragare dunque sì, ma verso isole felici” sembra dire Ciccullo. Ma il senso della raccolta sta ancora una volta nel grande messaggio cristiano, in quell’imperioso comando, quella primissima ed unica regola che i vangeli ci hanno lasciato, e che il poeta ricorda in una delle prime poesie, invocando il rispetto dell'altro come legge fondamentale.
Dunque un’opera autenticamente cristiana, nel senso che le parole di Gesù sono riflettute dal di dentro, sono vissute come autenticità dell’anima, e dunque tradotte in poesia. Non più semplice morale, o religione, è l’intensità della vita che si fa parola, o meglio è la parola che diventa una vita contemplata in una prospettiva nuova, quella di un’umanità finalmente adeguata al grande regola del cristianesimo, trattare gli altri come se stessi, perché ognuno di noi è nell’altro e gli altri sono in noi. Così siamo di fronte a un tentativo di rivivere l’esperienza cristiana attraverso la poesia e di approfondire i valori della cristianità, soprattutto l’esortazione di Cristo a vedere nell'altro sempre un altro sé. Insomma un'opera che difende non tanto il cristianesimo come istituzione, quanto l'etica cristiana come strumento di concordia umana, valevole al di là delle posizioni religiose, valevole come suggerimento per una dimensione finalmente pacifica dell'uomo.