DANIELA D'ALIMONTE
Caro Sargente,
Tu si quilo charrestato mi fratello e io so quillo che me te vuoglio magnà lo coro e lu chiu piezzo russo a da essere la recchia quanto ma ti chrito ti vengo a trova a casa o allo Cuorpo di Guardia tu si quilo che lano passato me struchisto lo passo parchè isto colla Guardia mobilaio so quilo che ti voglio mete in groce tu si quilo nomecio di Francisco e io da Vitoria Manuele Francisco morevene e te faccia fa ad arostora ccoma nna lanama tuia che quanno primo murera Francisco II me protege e ma assisto io lamo lo venero lo addoro e lu bidisce come certo Pio none che ma dato stu bilo cristo vive sempre Francisco pio none aspita che quanno primo me te vuoglio magna lo core. Li difensore di Pio none e lo nostro Francisco da dove me trovo vivo sempre francisco secondo e pio none.
In un mio saggio pubblicato nel 2011, all’interno del volume “Brigantaggio sulla Maiella” (Tinari edizioni), per l’Archivio di Stato di Chieti a cura di Miria Ciarma, analizzai alcune lettere minatorie scritte da briganti abruzzesi. Il fenomeno del brigantaggio nell’area maiellese fu molto esteso e attivo; è stato varie studiato e ricostruito nelle sue fasi grazie soprattutto ai documenti conservati nell’Archivio di Stato di Chieti e nella Sezione di Lanciano, relativi al tema.
Tra le carte processuali che servirono a condannare i briganti una volta catturati si trovano anche loro lettere scritte con lo scopo per lo più intimidatorio o per chiedere riscatti. Questi documenti oggi sono per noi assai interessanti non solo dal punto di vista storico, ma anche nell’ottica linguistica, perché ci permettono di studiare il repertorio lessicale che emerge da simili testi; si tratta di una varietà dell’Italiano scritto ma intriso di forte oralità. Tali documenti rivelano le caratteristiche espressive di tutto un mondo, di quella sfera sociale dalla quale i briganti provenivano e aiutano più genericamente a ricostruire le varie sfaccettature della situazione linguistica italiana a cavallo dell’Unità . Si può ricavare infatti il grado di alfabetizzazione raggiunto dai cosiddetti semicolti, la presenza o meno di una scolarizzazione e l’influenza che il parlato, unica lingua appresa naturalmente fin dalla nascita, poteva esercitare sullo scritto.
Tra queste lettere ve ne è una assai originali per gli aspetti linguistici e testuali, che è stata scritta dal celebre brigante Nicola Marino di Roccamorice, meglio noto come Occhi di Celli ‘Occhi di uccello’-a quanto pare per il colore e la forma dei suoi occhi- a suo tempo assai temuto per la spietatezza delle azioni che gli venivano attribuite. La lettera non è firmata, ma, precisi riferimenti a fatti e situazioni che interessarono direttamente il Marino, ci autorizzano a pensare che fosse stato proprio questo temibile personaggio a scriverle o quanto meno a dettarle a qualcuno dei suoi uomini fidati. Nicola Marino si unisce ai briganti della Maiella nel Maggio del 1861.
Con Luca Pastore e Pasquale Mancini, partecipa al saccheggio di Pretoro, Pennapiedimonte e Roccacaramanico e all’assalto, nel 1862, del carcere di San Valentino allo scopo di arruolare nella banda i detenuti aiutati ad evadere. Dopo la morte dei suoi due complici diventa capo dei briganti in azione sul versante occidentale della Montagna Madre e commette una serie di omicidi, sequestri e estorsioni.
Nel 1866 lo ricercano in tutto il territorio senza esito ma, in questo stesso anno, guida con Domenico Di Sciascio di Guardiagrele e Domenico Valerio di Casoli, l’assalto a Tocco e commette una serie di omicidi nei territori di Guardiagrele e di Fara San Martino. Alla fine del 1867 viene arrestato a Tivoli mentre cerca di fuggire nello Stato Pontificio e viene estradato in Abruzzo; la Corte d’Assise di Chieti lo condanna a morte; nel Processo d’appello la pena gli viene commutata nei lavori forzati a vita.
Nella missiva che riporto, il carattere fortemente minatorio, una spietatezza impressionante si riversa tra le righe degli scritti; evidente è la volontà di terrorizzare il destinatario con formule predittive. La lettera è indirizzata a Giuseppe Di Luzio, Sergente della Guardia nazionale di Tocco da Casauria ed è del 1864.Essa presenta toni espressionistici (me te vuoglio magnà lo coro, quanto ma ti chrito ti vengo a trova a casa, che ti voglio mete in groce ecc.). Il brigante pare sforzarsi ad elencare le intimidazioni ad effetto in una sorta di climax ascendente fino ad arrivare a palesare l’insano progetto di voler far fare arrosto il povero sergente dal Re di Borbone (!): francisco morevene e te faccia fa ad arosto , frase che oggi suscita a noi lettori anche un po’ di ilarità.
E’ evidente come fosse nata per una mera esigenza di vendetta personale perché il Sergente, come si legge nella stessa, aveva messo in carcere il fratello del brigante Marino e aveva ostacolato pure lui, ma non mancano le solite lodi a Francesco II di Borbone e a Pio Nono in linea con le tendenze politiche tipiche dei briganti. Parafrasi Tu si quilo ‘Tu sei quello’; charrestato ‘che hai arrestato’; coro ‘il cuore’; russo ‘grosso’; a da essere la recchia ‘deve essere l’orecchio’; quanto ma ti chrito, letteralmente: ‘quando mai ti credi’ ovvero ‘quando meno te l’aspetti’; qui è da notare, nella forma chrito l’incertezza nel rendere graficamente il suono della consonante velare iniziale, evidentemente confusa con una palatale e quindi reso con la –h-, per effetto forse della vocale –i-; lano passato ‘l’anno scorso’ ; me struchisto lo passo letteralmente: ‘mi tagliasti il passo’, quindi ‘mi fermasti, mi ostacolasti’; parchè isto ‘perché andasti’ dove si nota la particolare e non frequente differenziazione vocalica della –e della congiunzione perché in –a-; mete in groce ‘mettere in croce’; nomecio ‘nemico’, italianizzazione errata della forma dialettale antica abruzzese numicё ‘nemico’; morevene :letteralmente ‘mo’ riviene’ , ‘adesso ritorna’ scritto in maniera univerbata così come lanama ‘l’anima’ con assimilazione vocalica della –i- in –a-; tuia ‘tua’; lu bidisce letteralmente ‘lo obbidisco’ ovvero ‘gli ubbidisco’; none ‘nono’; stu bilo cristo letteralmente ‘questo bel Cristo’ (riferito a Francesco II) ; aspita ‘aspetta’.
Da notare innanzitutto la forte coloritura dialettale del testo e la presenza di errori di ogni tipo, da quelli ortografici passando per fenomeni prettamente fonetici che rivelano l’indubbia abruzzesità di chi scrive. La punteggiatura è praticamente assente: l’unico punto è alla fine della lettera. Il grado di alfabetizzazione molto basso è evidenziato anche dall’incapacità di distinguere dove esattamente finisce un termine e ne inizia un altro nella scrittura all’interno della frase, così si palesano le univerbazioni come al rigo 2 charrestasto per ‘che arrestasti’.Lo scritto mostra la combinazione di tre codici linguistici differenti: il codice dialettale, il codice italiano relegato a termini sporadici, scritti tra l’altro in maniera scorretta perché comunque influenzati dalla forma dialettale, e un codice in cui si ravvisa una contaminazione tra lingua, dialetto e una certa influenza del napoletano.
Ci sono poi espressioni tipicamente italiane e colte che stridono nel contesto e che contribuiscono a creare un vivace pout-pourri linguistico; si noti ad esempio la classicheggiante forma lo venero riferito a Francesco II o lo addoro sempre riferita al sovrano ma scritta in modo errato, con raddoppiamento della -d- (righi 13 e 14). Quando si parla del re di Borbone si nota subito la volontà dello scrivente di cambiare registro e tono, ci si sforza di usare termini italiani più raffinati. Dall’analisi linguistica emerge in sostanza che chiunque abbia scritto le lettere, sia egli il Marino in persona o qualcuno di sua fiducia, si tratti sostanzialmente di un incolto o semicolto che ha potuto apprendere, con una scolarizzazione minima e certamente discontinua, solo i primi rudimenti della scrittura .