La Via Crucis di Cesare Nicolini

GABRIELLA SERAFINI

Ven 1 aprile 2022 /

Cesare Nicolini è una importante voce nel panorama della poesia in vernacolo e di recente, nel 2018, ha pubblicato LA VIJE DELA CROCE, una personalissima rivisitazione della classica Via Crucis.

In questa pubblicazione si ripropone proprio l’humus della Settembrata Abruzzese: 15 Stazioni inframezzate dal canto-preghiera. La variante importante è che le riflessioni poetiche di tutte le stazioni sono di Cesare Nicolini, così come il testo del canto, e la musica è curata da Aldo Nicolini, uno dei più valenti compositori nel panorama del folklore abruzzese, nonché figlio dell’autore.

Si potrebbe affermare, senza ombra di dubbio, che questo lavoro è un doppio atto di fede: da una parte esprime la grande e sentita religiosità dell’autore, dall’altra è un atto di fedeltà nel continuare la tradizione culturale tipica dei poeti dialettali abruzzesi.  Questa pubblicazione è “la tradizione” che si consolida, è “il nuovo” che cammina spedito nel solco del passato, conservandone la profonda spinta motivazionale e valoriale.

La struttura di questa che sembra un’agile guida alle riflessioni sulle 15 Stazioni, in realtà è più complessa.  Le riflessioni poetiche sulle 15 Stazione della Via Crucis sono precedute da un’invocazione d’apertura, una breve preghiera che dichiara l’intendimento e la speranza: è importante che la tradizione della Via della Croce continui con la stessa devozione e si rinnovi come atto d’amore e di sinceri sentimenti.  Subito dopo c’è il canto (musica e parole in lingua ) che accompagnerà il percorso.

La collocazione della musica in apertura, senza nulla togliere alle riflessioni poetiche successive, sembra voler dare il ritmo al procedere , dalla condanna al percorso, alla Resurrezione.  Il ritmo lento e dolente, greve, unifica le 15 Stazioni che risultano “finestre” aperte alla riflessione e all’espressione dialettale.

L’operazione è di forte impatto perché è evidente che si prefigge di sostituire o quanto meno di essere alternativa al canto del Metastasio, utilizzato nelle Via Crucis della Settembrata. Negli agili settenari che si succedono nelle due quartine per ogni stazione scorrono le immagini del Calvario.  Si potrebbe dire che la Via Crucis si dispiega come un film, proprio nelle strofe del canto, con inquadrature mozzafiato, con zummate inquietanti realizzate con una tecnica d’altri tempi.  L’intento preparatorio e didascalico si percepisce chiaramente: la musica dà il ritmo dolente che predispone alla comprensione dei momenti in cui bisogna trascendere la concretezza dell’immagine e raggiungere l’intelligibilità dell’essenza spirituale. I versi del canto sono flash che illuminano la scena con una tecnica a “occhio di bue”.

Dopo l’avvio, in maniera inusitata, l’autore già spiega come andrà a finire….E lu terze jurne…  Si resta smarriti da questa scelta, perché l’idea che ci siamo fatti è che la via della Croce serva all’anima per ripercorrere il dolore fino a giungere alla rinascita nello Spirito.  Come mai si sceglie una modalità a ritroso come certi film in cui si parte dall’epilogo della storia?  Forse per significare che la cosa importante sul piano spirituale e religioso è la Resurrezione? Forse per affermare che gli altri accadimenti sono solo premesse, necessarie sì, ma solo eventi che è bene siano in secondo piano e narrati in modo da far capire ciò che è veramente straordinario?  C’è sicuramente l’intento dell’autore di rendere la Via Crucis un atto di riflessione sulla propria fede, per ripercorrere consapevolmente non solo le scene cruente di una storia che ne aumenti la drammaticità narrativa, ma esaminare con devozione gli elementi imperscrutabili della  manifestazione della grandezza del mistero divino.

Per ogni stazione si ripete: riflessione poetica dialettale abruzzese, traduzione, testo del canto religioso.  Tutto costituisce un’armonica struttura densa di significato didascalico.  Le riflessioni poetiche dialettali che costituiscono “le finestre” al percorso doloroso divino e umano sono 15.  Non tutti i componimenti sono uguali nella struttura metrica: 10 sono sonetti, di cui l’XI stazione caudato, 4 sono quartine di numero vario dalla III stazione alla VII, una sola, la XIV, libera .  Il verso preferito è l’endecasillabo con attenzione all’articolazione della rima.

Reputo Cesare Nicolini  un poeta dialettale attento ed esperto nell’uso dei termini dialettali, nelle assonanze, nelle metafore, ma in questa raccolta di poesie religiose mi sono imbattuta    in termini che mai mi sarei aspettata da un dichiarato purista: “scaggione” (scagiona), “’ngurdenizie” ( ingordigia); “ ‘ngrugnite” (ingrugnito, truce); “stesure” (stesura); “ ‘ rruhante” (arroganti”; “ ‘ngorde”(ingordi), “fungarde” (infingardi e indolenti).  Sono tutti termini italiani dialettizzati    e che non appartengono all’esiguo vocabolario dialettale tradizionale.  Più verosimilmente sono termini italiani che sono stati acquisiti nel gergo locale per esprimere concetti che la modernità ha accolto ma che erano estranei ai nostri padri: ingordigia, arroganza, infingardi non rientrano nel  patrimonio linguistico originario.  Va da sé, quindi, che l’uso di questi termini da parte di un poeta attento e consapevole, è la testimonianza che il dialetto, come ogni lingua,  si evolve e si contamina a contatto con altre lingue e che forse i cultori del dialetto dovrebbero tenerne conto, soprattutto quando alcuni scrittori dialettali più giovani o vissuti in una realtà urbanizzata introducono termini nuovi nella scrittura vernacola impastando con il dialetto i termini originari italiani o inglesi che siano.

Questo lavoro poetico di Cesare Nicolini è una Via Crucis che rimescola continuamente vecchio e nuovo, la verità di fede con le umane faccende, espressioni italiane datate come stile con la spontaneità vernacola.  Il tutto rende questo lavoro   oltre che significativo sul piano della copiosa produzione religiosa, con una sua originalità non facile da raggiungere quando su un argomento è già stato molto detto e fatto.  E’ originale la varietà dei linguaggi utilizzati, come se volesse mettere il lettore o piuttosto il fedele che segue la processione nelle condizioni di trovare le modalità espressive più consone al proprio sentire e nello stesso tempo a non perdersi nel cammino esperienziale e linguistico del poeta.      Ogni riflessione poetica è un piccolo scrigno di verità e di armonie dove si cerca di connettere il quotidiano con il divino, il peccato con la salvezza.  In alcune si raggiunge uno spessore lirico, come nella VI Stazione quando Gesù incontra la  Veronica, e lo scrigno si fa gioiello in quanto la forma e il contenuto si intrecciano in maniera tale da restituire al lettore “il significato”, “la vibrazione” in una policromia linguistica ed emotiva così ben articolata da giungere direttamente al cuore per rischiarare di significati la mente.    

VI STAZIONE: GGISU’ ASSUCATE DA LA VIRONICHE

È  da ‘nu belle m’po’ che si strascine

a la nn’ammonte nghe la croce a spalle,

pare   che nen s’arrive ma’ a la fine

e arrète nen s’allusche cchiù la valle.

‘Na    femmenucce sotte a ll’afe calle

lu Salvatore sùbbete avvicine

nghe ‘nu fazzòle bbianche che staràlle       

la facce assuche all’Ommene divine

che ‘m bacce a la pezzòle   s’à ‘rtrattate.

Viròneche cchiù ninde c-i-à   capite,

nen s’arcapezze e ce s’à ‘nginucchiate

strignènnele a lu pette ammutulite,

da chelu urne nen s’à cancillate

chelu fazzòle de Ggisù patite.                                                                                                                                                                                             

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