GABRIELLA SERAFINI.
Il calore delle nostre case nell’accogliere parenti, amici e conoscenti è risaputo. Forse è meno risaputo che gli abruzzesi tendenzialmente sono di una disponibilità estrema ad accettare con sincera magnanimità tutti coloro che sono “forestieri”, “fraštire”, di altre città o comunque che non fanno parte della sfera abituale di conoscenza. Se un qualche “fraštire” veniva a casa di mia madre, non si sapeva cosa dare e come farlo trovare a proprio agio; magari ci si toglieva “il pane dalla bocca”, cioè si dava anche il necessario per compiacerlo in tutti i modi, così che una volta uscito potesse dire di essersi trovato bene, potesse elargire vanti alla famiglia che l’aveva ospitato.
Poniamo attenzione ai modi di fare: quando un conoscente, un amico entrano a casa si muovono con familiarità di luoghi e di consuetudini, il loro sguardo è sempre sicuro ed esprime tranquillità, non è guardingo, né scrutatore, i loro modi di fare non sono impacciati, incerti, attendisti di un segnale che faccia capire che la cosa si può fare…. in sintesi sono di “famiglia”, sono abituati a stare e a fare. Al contrario, chi viene per la prima volta sembra un estraneo alla casa, sembra “nu fraštire”. Ugualmente succede quando chi ha qualcosa da nascondere o ha un risentimento, una contrarietà nascosta entra a casa di un conoscente: il suo modo di fare è circospetto, come se non conoscesse affatto la casa o le consuetudini dei padroni di casa, i suoi movimenti sono impacciati
come “nu fraštire”. Succede la stessa cosa quando si manca da molto tempo, quando si è andati fuori per lavoro o altre vicissitudini, quando è passato molto tempo dall’ultima visita… quando la consuetudine e la familiarità sono affievolite.
Capitava, e forse capita ancora oggi che durante le feste di Natale ci si scambino visite o più facilmente ci si incontri durante una passeggiata o da amici, o al cinema. Fateci caso, lo scambio verbale avviene in questo modo: - Chi si vede! T’hi fatte fraštire!- Cioè, non ti si vede più!
Frasi come “Vi sète fatte fraštire”, “mi simbrète fraštire”, “nin facète li fraštire” sono tutti modi di dire rimasti ancora oggi nel linguaggio dialettale che da una parte ricordano dell’ospitalità e dell’amicizia e dello stile accogliente degli abruzzesi, dall’altra non fanno che sottolineare che al giorno d’oggi non ci si frequenta più come una volta, raramente ci si scambiano visite, sporadicamente si vive con disponibilità nei confronti degli altri. Troppo spesso capita che anche gli stessi familiari diventino “frastire” putroppo!
“Tu pinne!”
Tra i detti o espressioni che sottendono significati complessi, riferiti al cibo, voglio ricordare il “Tu pinne!” che tanto spesso mi ha accompagnato nella mia infanzia.
Spesse volte la punizione per la marachella commessa, invece di arrivare subito, veniva rimandata a tempo indeterminato. I nostri genitori usavano una sorta di promessa minacciosa condensata in due parole: “Tu pinne!” (Tu pendi!)
Per intendere il contenuto della frase bisogna rifarsi al tempo in cui nelle case dei più abbienti – poche, per la verità – e in quelle coloniche – assai più -, con i primi di gennaio si ammazzava il maiale.
Un proverbio scherzoso recitava: “se vuoi star bene un mese, piglia moglie; se vuoi star bene un anno, ammazza il maiale; se vuoi star bene per tutta la vita, fatti frate (con la variante: monaca o prete)”.
Non so quanta verità ci fosse in quanto alla moglie e al frate, ma il maiale, ridotto a tocchi pendenti dal soffitto della cucina per la stagionatura e la conservazione, era effettivamente una risorsa che accompagnava la famiglia per tutto l’anno.
Il popolo, nella sua saggezza, aveva intuito che quel pendere di prosciutti, salsicce, lombi e ventricine, era un fatto provvisorio, perché la destinazione finale era la loro distruzione, e aveva collegato la pena da infliggere con la stagionatura e la distruzione del suino. Sicchè “Tu pinne!”, stava a significare che la punizione era rinviata soltanto, stava in sospeso, appunto, e sarebbe arrivata al momento opportuno, con relativi interessi.
“Tu pinne!” quante volte l’ho sentito ripetere, e francamente all’angoscia di dover aspettare una grandinata che stava così sospesa in aria, preferivo una buona scarica di schiaffi immediata, che mi liberasse dal terribile interrogativo: oggi? stasera? domani?